di Alessandro Paglia e Saverio Gileno
La ventisettesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2022, che ha avuto luogo a Sharm el-Sheikh tra indugi e polemiche, si è conclusa all’alba con un accordo tra luci ed ombre.
Si sono confermati i timori iniziali, ovvero che la “COP Africana” non avrebbe fatto passi in avanti, con l’assenza della Cina – il Paese attualmente più inquinante – ed i conflitti d’interesse dell’Egitto, da un lato organizzatore di questa Conferenza, dall’altro con l’obiettivo (riuscito) di tutelare i propri interessi del gas. Dunque niente “phase-down” di tutte le fonti fossili, si rimane con l’obiettivo degli Accordi di Parigi di non superare i +1,5º, anche se l’Emission Gap Unep avverte che con questa traiettoria supereremo entro fine secolo i +2,8º.
La “giustizia climatica” è stata riconosciuta con la creazione del fondo “Loss & Damage” ed è una decisione storica: si riconosce un “diritto di compensazione” attraverso un fondo per assistere finanziariamente le nazioni su danni e perdite causati dalla crisi climatica.
Volendo trarre un rapido giudizio complessivo questa COP segna un fallimento: si accetta la prospettiva di crescente instabilità climatica per non minare gli interessi economici delle nazioni, il diritto di compensazione pare delineare la volontà di offrire un contentino per i danni che si sono accettati come inevitabili. Non è con il risarcimento danni che si affronta il caos climatico ma lavorando per evitare che si realizzi.
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