I tentativi di riforma del diritto delle amministrazioni pubbliche, per lo più operati al livello di fonte normativa primaria dello Stato, si sono succeduti nel corso dei decenni.

Alcune volte questi sforzi sono naufragati, infrangendosi contro resistenze di diversa origine e natura: della politica, della società civile, spesso della stessa pubblica amministrazione; altre volte hanno segnato i dibattiti parlamentari navigando, comunque non senza difficoltà, fino all’approvazione di leggi più o meno organiche, più o meno capaci di correggere le disfunzioni, ma sempre in ritardo rispetto alla necessità di raggiungere il traguardo prefissato, sempre spostato in avanti dal rapido evolversi delle situazioni che si intendeva correggere.

Spesso, alla fine del percorso, aspetti in sé positivi sono rimasti imbrigliati dai persistenti residui del precedente assetto ordinamentale o, con ancora maggiore frequenza, sono stati depotenziati da approcci conservativi degli operatori della pubblica amministrazione.

Le rose e le spine, come si suol dire.

In questo senso, quello della “Questione amministrativa” è un tema non solo attuale, quanto piuttosto sempre attuale; sia guardando alla storia, in particolare alla storia del diritto dal punto di vista della storia delle amministrazioni pubbliche e delle riforme amministrative; ma anche, e per certi versi soprattutto, guardando al futuro, nella prospettiva de iure condendo delle possibili soluzioni alle problematiche ancora aperte ed alle nuove esigenze sociali.

Con riguardo al primo punto di vista, è evidente che il cammino specifico del processo di costruzione di una Nazione ha un effetto diretto sul ruolo della burocrazia, il suo status, i risultati che essa è capace di perseguire, e viceversa[1].

In Italia, in particolare, alcuni vizi originari riconducibili alle fasi convulse del processo di nascita e di sviluppo dello Stato unitario[2], hanno esercitato un influsso negativo sulla capacità dell’amministrazione pubblica di reagire agli input dati dalla sempre crescente complessità del contesto economico e sociale di riferimento.

A partire da questo non facile contesto, gli interventi legislativi posti in essere fino ad oggi, che hanno riguardato un po’ tutti gli aspetti del diritto amministrativo, si sono posti come obiettivo finale quello dell’innalzamento della qualità dello svolgimento dell’agire pubblico, in conformità con le norme costituzionali che ne prescrivono l’imparzialità ed il buon andamento e nell’ottica di una loro attuazione pratica.

 

Più nello specifico, essi hanno riguardato: il decentramento dell’esercizio delle funzioni; la riorganizzazione delle strutture di governo politico, nel solco del principio della separazione dei poteri e dei suoi corollari; le privatizzazioni -in senso formale o sostanziale- o ri-pubblicizzazioni a seconda dei periodi storici e delle esigenze (vere o presunte), con una rimodulazione della spesa pubblica in termini di espansione o ridimensionamento; la liberalizzazione di attività economiche riservate ovvero di regimi autorizzativi esistenti; la riforma della disciplina del pubblico impiego, nel senso di una quasi totale privatizzazione del regime lavoristico; il reclutamento del personale; la delegificazione mediante l’adozione di regolamenti, in teoria finalizzata ad una semplificazione dei procedimenti amministrativi; la valutazione delle performance della dirigenza pubblica e dei dipendenti pubblici in generale; la modernizzazione e/o digitalizzazione dell’azione amministrativa.

 

Quindi, il percorso finora compiuto presenta molte ombre, ma anche almeno spiragli di luce rappresentati dalle molte novità positive che si è riusciti ad introdurre nel sistema.

 

Eppure, tutti i “fronti” sinteticamente innanzi richiamati sono ancora aperti; tanto che, a chi oggi ci interrogasse sul se il problema della qualità della funzione amministrativa di governo sia ancora attuale, bisognerebbe rispondere non solo che esso sottende una questione sempre attuale, ma, che, soprattutto in questa fase della storia, esso assume un rilievo ancora maggiore che, se affrontato nella giusta prospettiva, può risolversi in una grande opportunità.

Il dato politico che ci impone di considerare la sfida della qualità della pubblica amministrazione come decisiva, oggi ancor più di ieri, è riconducibile al tema generale dell’espansione dei diritti individuali e collettivi, nella prospettiva di una graduale piena realizzazione dello Stato di diritto nel solco tracciato dalla carta costituzionale.

Si tratta di un processo che solo convenzionalmente può esser collocato a valle della adozione della carta costituzionale, ma che, in realtà, trova il suo momento storico costitutivo sostanziale nella caduta degli Imperi, quando lo Stato smette di confinarsi nell’appagante ma ideale paradiso metastorico dello Stato di polizia e inizia ad evolversi secondo una graduale logica funzionalistica.

Al livello attuale, in particolare, il principio dello sviluppo sostenibile e della tutela ambientale ed il diritto ad un ambiente salubre -le istanze collettive e individuali, tradizionalmente inquadrate in un’ottica dualistica, si stanno dimostrando in realtà interdipendenti- rappresentano certamente in maniera emblematica la tendenza (necessità) espansiva innanzi richiamata.

Come ampiamente noto, infatti, il Green New Deal adottato dall’Unione europea si pone l’ambizione di integrare le politiche ambientali all’interno di tutte le azioni dell’unione, non solo nell’ottica di un tendenziale e progressivo miglioramento della situazione ambientale esistente, ma anche nella convinzione che un ri-orientamento del mercato in senso green possa anche rispondere alla necessità di uscire da una crisi economica e sociale che, talvolta, sembra avvitarsi in un inarrestabile declino.

E’ evidente, però, che l’effettiva affermazione di nuovi diritti non potrà trovare una effettiva realizzazione se non con l’assunzione e l’esercizio, da parte dei singoli Stati, di nuove penetranti funzioni; strumento indispensabile della piena attuazione del Green New Deal, del raggiungimento degli obiettivi, della coerenza, efficacia e continuità delle sue politiche e azioni.

Il successo di questa operazione, in particolare, non potrà prescindere dall’attività esecutiva dello Stato e degli altri enti pubblici; un’attività comprensiva dell’adozione di atti normativi esecutivi secondari chiari e tarati sulle potenzialità economiche produttive delle realtà territoriali di riferimento e di atti di indirizzo politico espressione di una concreta pianificazione e programmazione delle azioni da intraprendere.

Ma anche del concreto agire dei funzionari pubblici, chiamati a recepire e dare attuazione agli indirizzi politici, a spendere utilmente i fondi stanziati, a vigilare sul rispetto degli obblighi ambientali da parte dei soggetti costituenti il panorama, sempre più eterogeneo e frastagliato, di quelle che Sabino Cassese ebbe a definire le “frange della pubblica amministrazione” (società partecipate, fondazioni, associazioni, enti pubblici economici, e via dicendo).

Più in generale, da un lato, i pubblici funzionari saranno necessariamente chiamati ad interpretare il diritto amministrativo ricostruendolo “dal basso” secondo un paradigma alternativo a quello tradizionale, “affiancando e sovrapponendo al tipico binomio Stato-cittadino un complesso di rapporti e soggetti più ricco e meno fondato sulla contrapposizione”[3], basato su un principio di sviluppo sostenibile che dovrà essere sempre più fondamentale con riguardo all’attività dell’amministrazione, e che fa venire meno la distinzione tra principi tiranni e diritti di libertà sulla quale era basato l’inquadramento dei rapporti tra tutela ambientale ed esercizio delle attività economiche.

Non è più sufficiente che la pregnanza delle istanze ambientali e del principio di sviluppo sostenibile sia riconosciuta ex post, durante la fase del controllo giurisdizionale, spesso e volentieri quando il danno è già stato fatto, con una capacità di rimediare simile a quella che ebbe la dichiarazione di nullità del processo a Giovanna D’Arco, intervenuta ormai a 20 anni dall’esecuzione della sentenza che aveva portato alla morte della Pulzella D’Orlèans.

Bisognerà necessariamente sostituire il modello “formalistico” dell’amministrazione con un modello maggiormente aderente all’agire privato, in forza del quale la valutazione non sia esclusivamente parametrata sulla coerenza con il modello legale di riferimento, ma consideri adeguatamente i risultati conseguiti in riferimento agli obiettivi prefissati.

Il Green New deal potrebbe rappresentare l’occasione, per l’Italia, di aprire una nuova stagione di riforme amministrative; lungo entrambe le due linee direttive indicate in apertura: correggere le disfunzioni manifestatesi in ordine alle esigenze collettive e/o  aggiornare tempestivamente la normativa all’incedere degli eventi, sempre più rapidi e sempre meno riconducibili a paradigmi formali consolidati; la necessità, non più rinviabile, di governare e correggere una crescita che sta iniziando a minare persino i millenari equilibri ecologici del pianeta ed a minacciare l’esistenza stessa della vita umana, potrebbe rappresentare il detonatore adatto a sgretolare gli ostacoli e le resistenze tradizionalmente incontrati dal legislatore sulla strada di una radicale riforma della pubblica amministrazione.

Si pensi, nella prospettiva che precede, al fatto che fu proprio durante il New Deal americano, al quale il GND europeo esplicitamente fa riferimento a partire dalla denominazione, che fu istituito negli Stati Uniti un autonomo sistema di diritto amministrativo, fino ad allora inesistente, almeno al livello di diritto positivo[4].

Ma il New Deal non si presentò solo nella forma di un insieme di interventi “calati dall’alto”. Se non avesse rappresentato anche un momento di nuova condivisione con la società interessata, chiamata ad esprimere la propria adesione al patto politico proposto dal Governo alla Nazione, e ad offrire le proprie energie per l’attuazione di questo patto, sarebbe probabilmente stato destinato a rimanere sulla carta.

Allo stesso modo, anche rispetto alle azioni intraprese al livello nazionale per “riempire” il Green New Deal si pone, in maniera forte, il tema dell’accettazione ed accettabilità sociale della transizione ecologica.

Nella prospettiva di riforme delineata, una prima proposta concreta, con specifico riferimento ad una effettiva partecipazione degli amministrati ai processi decisionali, potrebbe riguardare l’introduzione, all’interno del testo della l. 241/1990, di un riferimento al coinvolgimento degli interessati anche riguardo agli atti regolamentari e a contenuto generale, finora rimasti esclusi dall’ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione al procedimento.

 

Abbiamo detto anche che la tutela di nuovi interessi necessita quasi sempre dell’esercizio di nuove funzioni; bisogna ora dire che l’esercizio di nuove funzioni implica, quando è effettiva, una adeguata riorganizzazione degli uffici.

Sulla base di questo presupposto, molti Ministeri stanno costituendo Comitati per la sostenibilità ambientale; iniziativa apprezzabile, ma rispetto alla quale si porranno, in un futuro relativamente prossimo, problemi relativi ad un loro razionale coordinamento. E contestualmente, trattandosi evidentemente di organismi naturalmente soggetti al controllo del livello politico, occorrerà garantire il rispetto del

principio costituzionale della separazione tra politica e amministrazione.

Quest’ultimo punto è evidentemente fondamentale per una corretta attuazione del green New Deal: è emerso più volte come l’attuazione del Green New deal debba passare attraverso due livelli, l’uno verticale, l’altro orizzontale, per cui i vertici politici saranno chiamati ad adottare gli atti normativi e gli indirizzi politici generali che i dirigenti e dipendenti pubblici dovranno attuare. E’ necessario che in questa operazione, già di per sé complessa, i confini dei rispettivi ambiti di competenze sufficientemente definiti.

Talvolta gli ostacoli all’attuazione delle scelte politiche orientate alla promozione di uno sviluppo ambientalmente sostenibile, si sono manifestati in settori nei quali lo Stato italiano si era dimostrato capace di anticipare le iniziative di molti stati Europei; è il caso dell’economia circolare, alla quale il legislatore italiano ha dato impulso sin dall’anno 2003, con i c.d. decreti Ronchi.

Interventi normativi (troppo spesso improvvisati) e un approccio eccessivamente restrittivo degli organismi pubblici preposti all’espletamento dei procedimenti autorizzativi ed alla successiva attività di controllo hanno frapposto ostacoli ad una gestione partecipata del processo di transizione economica, fino al punto da rendere preferibili scelte conservative rispetto alla piena attuazione dei processi innovativi: meglio la gestione “in sicurezza” dei residui di produzione come rifiuto anziché l’esposizione al rischio di contrastanti valutazioni della gestione dei medesimi residui come sottoprodotto ed il loro avvio ad operazioni di riciclo e/o recupero.

Risulta evidente che questi “ambiti di intervento per l’attuazione del Green New deal”, indicati in via meramente esemplificativa, coincidono con molti dei percorsi di riforma sui quali si è impegnato il legislatore nel corso degli anni.

Tuttavia, come ci dicono i dati comparati disponibili sull’applicazione delle direttive europee che hanno riguardato la questione ambientale, la struttura complessiva della disciplina normativa di riferimento si pone come presupposto della buona pratica amministrativa; presupposto necessario, ma non sufficiente.

Tant’è che, a parità di legislazione, almeno al livello di principi direttivi, la capacità delle pubbliche amministrazioni di fare vivere quei principi e quelle norme -che sono spesso ad alto tasso di tecnicità- varia da Stato a Stato membro; ovvero varia  all’interno dei singoli Stati dove, nel medesimo contesto normativo, sono le differenze tra territori in ordine alla capacità politica e la qualità della amministrazione a fare la differenza.

Insomma, le riforme amministrative sono necessarie, ma rappresentano solo il presupposto della radicale trasformazione della concreta capacità della pubblica amministrativa di operare, come dicevamo, secondo un paradigma alternativo a quello tradizionale.

Questa consapevolezza ci riporta necessariamente ai vizi originari, prima accennati, dello Stato italiano.

In particolare, per accompagnare il processo di nascente industrializzazione di una parte consistente del Nord Italia, fu necessario, a partire dai primi anni del 900, creare una macchina amministrativa all’altezza delle evoluzioni in corso[5].

Fino ad allora, infatti, lo Stato si limitava a svolgere le poche funzioni tipiche di uno Stato di polizia.

I funzionari pubblici da arruolare furono individuati soprattutto tra i giovani laureati del Sud Italia, che fu quindi lasciato sguarnito di fronte ai cambiamenti imposti dalla modernità; peraltro con una assoluta preponderanza dei laureati in giurisprudenza.

E’ in quegli anni, infatti, che ha inizio il fenomeno così detto della “giuridizzazione” della dirigenza pubblica, con una conseguente perdita dei profili tecnici che, oggi, sarebbero essenziali per la efficiente gestione dei processi di transizione ecologica, che richiedono il possesso di elevate competenze scientifiche trasversali in materie quali lo sviluppo tecnologico, la salute, la biologia, l’architettura e l’ingegneria.

Basti pensare alla varietà di interessi coinvolti nelle valutazioni di impatto ambientale, o nelle pianificazioni urbanistiche; senza contare che la giusta integrazione di considerazioni di carattere ambientale -e tecnologico- in settori tradizionalmente caratterizzati da un approccio orientato soprattutto al risparmio dei costi, ha introdotto, sul presupposto che anche la degradazione ambientale fosse un costo -seppure non immediatamente contabile-, elementi di tipo qualitativo che ne aumentano la complessità.

Sicché i vizi originari si sono aggravati in proporzione diretta alla crescita della complessità ed interdisciplinarietà delle problematiche che la pubblica amministrazione è chiamata ad affrontare e risolvere.

E si sono aggravati, anche, per un approccio “contabilistico” che ha irresponsabilmente privilegiato un risparmio dei costi fondato sul blocco delle assunzioni che ha provocato il rapidi invecchiamento dell’apparato burocratico: meno personale e personale meno giovane, con il risultato di un grave impoverimento della struttura, quantitativo e qualitativo.

E con l’effetto di indebolire la capacità di interlocuzione della pubblica amministrazione con la moderna impresa privata, determinando una “strutturale subalternità” del “pubblico” rispetto al “privato”.

La legge delega n. 124/2015 aveva cercato di operare su alcune di queste disfunzioni, intervenendo sulle modalità del reclutamento e sulla necessità di individuare nuovi profili professionali nuovi criteri di selezione della dirigenza pubblica; tentativo però bloccato dal conflitto di competenza sollevato, da alcune regioni innanzi alla corte costituzionale, con riguardo ai decreti legislativi adottati, per violazione del principio di leale collaborazione.

La Corte ha accolto il profilo della contestazione inerente la previsione di un parere non vincolante della Conferenza Unificata, e si è tornati alla casella di partenza.

Tale vicenda pone il problema della condivisione delle riforme necessarie non solo con le pubbliche amministrazioni, i cittadini, la politica, ma anche con gli altri attori istituzionali previsti dall’art 114 cost (Comuni, Province, Città Metropolitane e, appunto, Regioni).

Comunque, come detto, la ineludibile necessità di attuare il green new deal potrebbe costringere alla ripresa del filo della riforma del 2015; perché altrimenti anche le migliori intenzioni resteranno seppellite dal peso della inefficienza della amministrazione pubblica.

Si pensi solo al beneficio che una mirata riqualificazione della pubblica amministrazione, nel personale e nelle strutture, porterebbe alle politiche di sviluppo nel sud, dove la incapacità di utilizzare anche le risorse straordinarie dei fondi comunitari e di coesione si risolve nella persistente arretratezza strutturale di una realtà che, come tutti i dati dimostrano, ha pagato e continua a pagare un prezzo troppo alto per la Grande Crisi del 2008.

In conclusione: le grandi questioni che l’Italia ha di fronte a sé, dalla questione ambientale a quella dello sviluppo a quella di una nuova coesione sociale e territoriale, non solo devono essere affrontate insieme, ma devono essere affrontate nella consapevolezza della assoluta, e per certi versi prioritaria necessità di un adeguamento quali-quantitativo, strutturale e funzionale della Amministrazione Pubblica.

E se il Green New Deal, come per fortuna è oramai convinzione diffusa, più che una scelta è una necessità, ben venga che costituisca anche l’occasione per mettere tutti d’accordo e superare gli scogli-resistenze dalla cui considerazione siamo partiti.

Pere rollare finalmente sui grandi mari piegandosi al soffio del vento.

Non sarà facile ma dipende solo da noi, dimostrare che è nella natura umana la capacità di trasformare un problema in una soluzione, e che “anche nella lotta più accanita tra le vecchie e le nuove forze possono nascere giuste misure e formarsi proporzioni sensate”[6].

Articolo di Cesare Massa

[1] S. Cassese, The risk of the administrative state in Europe, in Riv. Trim. Dir, pubbl., 2010, 981-1008.

[2] Si rimanda, per una trattazione esaustiva, a G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana, il Mulino, Prima edizione 1996.

[3]  S. Cassese, La signoria comunitaria sul diritto amministrativo, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2002, p.291 ss.

[4] P. Cane, Controlling Administrative Power: An Historical Perspective, Cambridge, Cambridge University Press.

[5] Si richiamano ancora una volta gli scritti di G.Melis, op cit; ma anche G.Melis, La storia del diritto amministrativo generale, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da S.Cassese.

[6] C.Schmitt, Terra e mare, Adelphi editore,.