Nei giorni in cui la cronaca politica dà conto del confronto in corso nel governo e nella maggioranza sulle “governance” del Piano di ripresa e resilienza, può essere utile tornare al cuore dei contenuti.

Partiamo dai dati principali. Sono 196 i miliardi che, tra sussidi e prestiti, l’Italia avrà da questa nuova Europa, solo con il Recovery Fund (si aggiungono poi altri 100 miliardi circa dalle altre misure). Un quarto del totale, ovvero 48,7 miliardi, andrà ai progetti legati a digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; 74,3 (37,9%) saranno invece destinati a rivoluzione verde e transizione ecologica; 27,7 (14,1%) a infrastrutture e mobilità sostenibile; 19,2 (9,8%) a istruzione e ricerca, 17,1 (8,7%) a parità di genere, coesione sociale e territoriale e 9 miliardi (4,6%) alla salute.

È utile chiarire un punto che appare scontato ma quasi mai viene richiamato nel dibattito. I fondi appena elencati sono aggiuntivi rispetto alla normale programmazione di risorse che il governo fa in relazione agli investimenti pubblici. Molti di questi sono stati stanziati e stanno arrivando. I 196 miliardi si andranno quindi ad aggiungere ai normali investimenti che il Paese già pone in essere.

Non è un elemento da poco, al contrario: una mole di risorse così elevata, concentrata in un lasso di tempo così breve, può davvero rivaleggiare con il New Deal di rooseveltiana memoria. Elemento positivo, del tutto originale e caratterizzante, nel nostro caso è rappresentato dal quel “Green” che precede e indirizza l’intera impalcatura.

Un risultato lo possiamo, con la necessaria modestia, rivendicare. Quando abbiamo cominciato l’avventura dell’associazione Transizione Ecologica Solidale (TES) nel 2018, il binomio “transizione ecologica” non era assolutamente di casa nel gergo politico. Notiamo con piacere come ormai tale espressione sia entrata nel linguaggio quotidiano. Come detto infatti circa il 40% dei fondi sarà destinato alla transizione ecologica.

È oramai comunemente accettata l’urgenza di una rivoluzione verde diffusa e avremo finalmente a disposizione le risorse per farla. La sufficienza e la superficialità di coloro che non si rendono conto dell’urgenza di questa transizione sono figlie invece dell’incapacità di comprendere i danni che ha fatto e fa lo squilibrio ecologico al pianeta; pandemia compresa.

Un’ombra consistente si aggira tuttavia tra gli addetti ai lavori: sarà in grado il sistema amministrativo italiano di gestire una tale mole di risorse con la rapidità che le scadenze molto ravvicinate e le esigenze impongono? L’Italia purtroppo vanta una lunga storia di fondi giacenti, stanziati e non spesi, per lungaggini burocratiche, scarsa qualità della progettazione, inefficienza amministrativa, frodi, e via discorrendo.

Siamo coscienti che l’ennesima task force non sia una soluzione che scalda i cuori, ma occorre un bagno di realismo: sovraccaricare l’attuale macchina amministrativa di questa mole di risorse, quando fa fatica a gestire quelle che ha già a disposizione, vuol dire dichiarare in modo cosciente, non all’Europa ma a noi stessi, che tali risorse non verranno spese se non in tempi lunghissimi. Se così fosse la sfida vinta al primo tempo di cambiare l’idea d’Europa, sarebbe persa al secondo, nell’incapacità di inverarla.

Certo, non è convincente l’organizzazione verticistica, non è convincente una catena di comando che al momento appare poco chiara e nelle mani di pochi soggetti, non sono chiari i meccanismi di controllo della task force. Occorrerà lavorare per l’efficienza e la trasparenza della filiera. Ma la velocità e la semplicità non possono essere una subordinata perché alle macerie che produce il Covid con i suoi effetti (che si aggiungono ai problemi strutturali pregressi) o si risponde in tempi certi o troveremo alla fine solo un’economia e una società frantumate e stanche, ormai incapaci di riprendersi.

Michele Fina
(da Huffington Post)